Giacometti / Marwan – Ossessioni incrociate tra Oriente e Occidente

About the Author: Cristina Biordi

Published On: 20 Ottobre 2025

Tempo stimato per la lettura: 8 minuti

Nell’autunno del 2025, dal 21 ottobre al 25 gennaio 2026, l’Institut Giacometti di Parigi ospita una mostra che va oltre la semplice esposizione: Giacometti / Marwan – Obsessioni è un confronto silenzioso e potente tra due artisti che, pur provenendo da orizzonti culturali distanti, condividono un’ossessione profonda — la testa umana come chiave per indagare la condizione dell’essere.

Alberto Giacometti, icona della scultura del XX secolo, e Marwan Kassab-Bachi, pittore siriano radicato a Berlino, si incontrano per la prima volta in un’esposizione che intreccia temi come l’esilio, la memoria, l’identità e il volto come paesaggio interiore. Un dialogo visivo che attraversa Europa e Medio Oriente, modernità e spiritualità, dando corpo a un’indagine inquieta sull’umano.

Due esili, una sola urgenza: rappresentare l’essere umano

Marwan nasce a Damasco nel 1934, studia letteratura araba e, profondamente coinvolto nella trasformazione politica del suo paese, si trasferisce a Berlino nel 1957. Lì, sceglie la figurazione come atto di rottura contro l’astrattismo dominante. Le sue opere si popolano di figure deformate, volti velati, personaggi colti in un’espressione intima e vulnerabile.

Allo stesso modo, Giacometti rifiuta l’astrazione negli anni ’50 e ’60, tornando a lavorare dal vero, ossessionato dalla difficoltà di catturare la presenza dell’altro. Per entrambi, rappresentare la figura umana non è un esercizio formale, ma una necessità esistenziale.

Marwan, il viandante dell’anima

C’è qualcosa in Marwan Kassab-Bachi che sfugge alle etichette. Nato a Damasco nel 1934, cresciuto tra la luce setosa del Levante e il peso plumbeo della Berlino divisa, Marwan è l’artista che non ha mai smesso di camminare — tra culture, epoche, stili, memorie.
Un viandante dell’anima. Uno spirito libero che, pur scegliendo la Germania come patria adottiva, non ha mai dimenticato il crepuscolo damasceno, né il canto malinconico dei deserti.

Marwan ha vissuto — e dipinto — in quella linea sottile dove l’Occidente e l’Oriente non si fronteggiano, ma si riconoscono.

Berlino, la città che non somigliava a nulla

Il suo arrivo a Berlino è un impatto frontale. Nella classe del Professor Hann Trier, si scontra con l’arte che dominava il mondo occidentale del dopoguerra: l’Informale, l’Espressionismo astratto, il Tachisme.
Era l’epoca della pittura gestuale, delle superfici squarciate dalla materia, del gesto come urlo.
Per Marwan — fino ad allora influenzato dall’eleganza diffusa dell’Impressionismo francese — è uno shock. Ma uno shock fecondo.
Comincia allora a sporcarsi le mani con il colore, a scavare con le dita nella carne della pittura. Nascono immagini inquietanti, mostruose, a metà tra carne e spirito, astratto e figurativo.
Preludio silenzioso a ciò che verrà: i suoi volti come paesaggi interiori.

Le teste: tra paesaggio e apparizione

A partire dal 1983 fino alla sua morte nel 2016, Marwan si dedica quasi esclusivamente alla creazione di Teste — volti monumentali, colorati, frontali, che guardano lo spettatore con una sincerità disarmante. Li chiama Têtes-paysages, paesaggi interiori, ma anche proiezioni della sua terra d’origine, la Siria.
Non si tratta mai di veri e propri autoritratti, eppure il suo volto torna continuamente, immerso in colori fluidi, pennellate spesse, linee che confondono confini e identità.

In Giacometti, la testa è anche tensione, materia, scavo: dalla figura di Annette, la moglie, al fratello Diego, fino a teste generiche che emergono da blocchi di gesso, graffiati, abrasivi. È la stessa ossessione, filtrata attraverso due geografie interiori.

Il disegno come spazio di libertà

In mostra, il cabinet d’art graphique propone un confronto affascinante tra i disegni di Giacometti (anni ’50 e ’60) e quelli di Marwan (dal 1964 in poi). Mentre Giacometti schizza teste su riviste, buste e libri, Marwan disegna di notte, dopo il lavoro, su fogli che diventeranno la base dei suoi dipinti.

Entrambi i loro disegni sono luoghi di libertà, di pensiero visivo, di fragilità. Sono schizzi, appunti, ma anche confessioni. Come pagine di un diario visivo.

Umano, troppo umano

Giacometti e Marwan scelgono l’umano. Non lo idealizzano, non lo glorificano: lo mostrano nella sua inquietudine. Per Giacometti, l’uscita dal Surrealismo è segnata da opere che parlano di fragilità, angoscia, desiderio (La Femme qui marche, La Cage). Marwan, invece, rappresenta figure tormentate, quasi androgine, immerse in una luce lattiginosa. Le sue tele vibrano di un’espressività intima e sospesa.

C’è un sottotesto politico nelle loro opere. Marwan ritrae poeti e pensatori arabi perseguitati, come Badr Shakir al Sayyab o Munif al-Razzaz, ma li trasforma in simboli universali di resistenza e isolamento.

Il confronto finale: le Teste a tu per tu

Nel gran finale della mostra, tre Teste di Marwan (tra cui Kopf, 1986 e 1994) si confrontano con busti e teste di Giacometti degli anni ’50 e ’60. Una sala che pulsa di intensità: le superfici vibrano, i volti si confrontano, le ossessioni si riconoscono. La testa diventa allora simbolo universale di ricerca artistica, di identità, di lotta interiore. È il volto del mondo, del tempo, di noi stessi.

 

Il rifiuto del dogma: Marwan e la figurazione poetica

Mentre la Germania artistica del tempo archivia la figura umana come retaggio obsoleto, Marwan fa la scelta più coraggiosa: restare umano. Non lo interessano né i manifesti gridati, né la volontà di scioccare. La sua pittura — profondamente corporea, spesso sensuale — è invece una forma di poesia visiva. Ogni tela è un tentativo di dare corpo a emozioni troppo grandi per stare in una sola vita: desiderio, nostalgia, spaesamento. Nelle sue figure contorte, erotiche, isolate, si sente la voce di un uomo che ha conosciuto l’altrove. E ne ha fatto pittura.

I ragazzi palestinesi: fragile eroismo

Nel 1970, Marwan firma uno dei suoi lavori più intensi: Three Palestinian Boys. In un tempo in cui la solidarietà con la Palestina si traduceva in immagini stereotipate (fedayin armati, madri in abiti ricamati), lui sceglie il dettaglio, il gesto, l’umanità. Tre ragazzi con le camicie sbottonate e le maniche arrotolate, come se ne vedono migliaia nei campi profughi. Ma guardali bene: Marwan li dipinge dal basso, come si fa con gli eroi. Non hanno armi, ma portano sulle spalle un peso sovrumano. Non c’è retorica, c’è rispetto. C’è quella tenerezza severa che solo un pittore veramente umano può offrire.

Il corpo, la solitudine, il desiderio

Se i ragazzi palestinesi sono quieti e composti, le prime figure adulte di Marwan sono l’opposto: corpi frammentati, arti contorti, gesti impossibili.
Dipinti come Der Gemahl (Lo Sposo, 1966) raccontano una sessualità ferita, una ricerca spasmodica di compimento, un’esistenza spezzata e febbrile.
I volti somigliano a lui, ma non sono mai solo autoritratti.
Sono allegorie dell’inquietudine universale. Figure sospese in un non-luogo, che lottano per essere intere.

1973: Parigi, la svolta

Poi arriva Parigi.
Nel 1973, una borsa di studio lo porta nella città dei suoi sogni — quella che aveva sempre dipinto da lontano.
Qui Marwan incontra Cézanne, Monet, Bonnard. E si innamora di nuovo del colore.
Il viola crepuscolare, l’arancione damasceno, il verde smeraldo dell’infanzia tornano sulla tela.
Il colore diventa memoria viva. Il colore è casa.

Le Teste: topografie dell’anima

Dagli anni ’70 in poi, la pittura di Marwan si concentra sul volto — o meglio, sulla testa come paesaggio interiore.
Le superfici si frantumano in pieghe, campiture, strati sovrapposti. Ogni testa è un mondo: rughe come crepacci, sguardi come voragini, silenzi come altipiani.
Le dipinge, le ridipinge, le lascia emergere lentamente, come se scavasse nel tempo stesso.
Che sia olio, acquerello o incisione, ciò che conta è che quelle teste respirano.
Sono fragili e potenti, malinconiche e piene di dignità.

L’ultima lezione: comprendere tutto in un volto

Le “Teste” di Marwan ricordano a molti quelle di Francis Bacon, ma con una differenza fondamentale: in Marwan non c’è condanna, c’è compassione.
I suoi volti, pur scavati dalla vita, non sono vittime. Sono testimoni.
Come scrive il poeta Adonis, suo amico:

«Quando percepiamo il volto, possiamo dire: abbiamo compreso tutto.»

Marwan non dipinge per spiegare, ma per sentire.
E in quel sentire — così profondo, così umano — ci ha regalato non solo immagini, ma frammenti di verità.

Catalogo e programmazione

La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue (francese/inglese), curato da Françoise Cohen, con testi di Rasha Salti e un’intervista esclusiva di Hans Ulrich Obrist a Marwan. 112 pagine, 75 illustrazioni, prezzo: 24 €. Pubblicato dalla Fondation Giacometti e Fage éditions.

Durante l’intera durata della mostra, è previsto un ricco programma culturale: visite guidate (in francese e inglese), atelier per famiglie e bambini, incontri tematici.

Arte come esilio, arte come avventura

Scriveva Giacometti in una lettera del 1956:

« In questo momento vivo come un esiliato come mai prima, e ogni giorno ho la sensazione di vivere una grande avventura. »

E Marwan, nel 2008, annotava sul suo diario:

« Giorno di Sisifo », il nome di un dipinto mai finito, mai concluso, mai risolto.

Due artisti, due mondi, un’unica sfida: trasformare l’ossessione per l’umano in arte. Un’esposizione che non si guarda: si affronta.

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Alberto Giacometti, icona della scultura del XX secolo, e Marwan Kassab-Bachi, pittore siriano radicato a Berlino, si incontrano per la prima volta in un’esposizione che intreccia temi come l’esilio, la memoria, l’identità e il volto come paesaggio interiore. Un dialogo visivo che attraversa Europa e Medio Oriente, modernità e spiritualità, dando corpo a un’indagine inquieta sull’umano.

Due esili, una sola urgenza: rappresentare l’essere umano

Marwan nasce a Damasco nel 1934, studia letteratura araba e, profondamente coinvolto nella trasformazione politica del suo paese, si trasferisce a Berlino nel 1957. Lì, sceglie la figurazione come atto di rottura contro l’astrattismo dominante. Le sue opere si popolano di figure deformate, volti velati, personaggi colti in un’espressione intima e vulnerabile.

Allo stesso modo, Giacometti rifiuta l’astrazione negli anni ’50 e ’60, tornando a lavorare dal vero, ossessionato dalla difficoltà di catturare la presenza dell’altro. Per entrambi, rappresentare la figura umana non è un esercizio formale, ma una necessità esistenziale.

Marwan, il viandante dell’anima

C’è qualcosa in Marwan Kassab-Bachi che sfugge alle etichette. Nato a Damasco nel 1934, cresciuto tra la luce setosa del Levante e il peso plumbeo della Berlino divisa, Marwan è l’artista che non ha mai smesso di camminare — tra culture, epoche, stili, memorie.
Un viandante dell’anima. Uno spirito libero che, pur scegliendo la Germania come patria adottiva, non ha mai dimenticato il crepuscolo damasceno, né il canto malinconico dei deserti.

Marwan ha vissuto — e dipinto — in quella linea sottile dove l’Occidente e l’Oriente non si fronteggiano, ma si riconoscono.

Berlino, la città che non somigliava a nulla

Il suo arrivo a Berlino è un impatto frontale. Nella classe del Professor Hann Trier, si scontra con l’arte che dominava il mondo occidentale del dopoguerra: l’Informale, l’Espressionismo astratto, il Tachisme.
Era l’epoca della pittura gestuale, delle superfici squarciate dalla materia, del gesto come urlo.
Per Marwan — fino ad allora influenzato dall’eleganza diffusa dell’Impressionismo francese — è uno shock. Ma uno shock fecondo.
Comincia allora a sporcarsi le mani con il colore, a scavare con le dita nella carne della pittura. Nascono immagini inquietanti, mostruose, a metà tra carne e spirito, astratto e figurativo.
Preludio silenzioso a ciò che verrà: i suoi volti come paesaggi interiori.

Le teste: tra paesaggio e apparizione

A partire dal 1983 fino alla sua morte nel 2016, Marwan si dedica quasi esclusivamente alla creazione di Teste — volti monumentali, colorati, frontali, che guardano lo spettatore con una sincerità disarmante. Li chiama Têtes-paysages, paesaggi interiori, ma anche proiezioni della sua terra d’origine, la Siria.
Non si tratta mai di veri e propri autoritratti, eppure il suo volto torna continuamente, immerso in colori fluidi, pennellate spesse, linee che confondono confini e identità.

In Giacometti, la testa è anche tensione, materia, scavo: dalla figura di Annette, la moglie, al fratello Diego, fino a teste generiche che emergono da blocchi di gesso, graffiati, abrasivi. È la stessa ossessione, filtrata attraverso due geografie interiori.

Il disegno come spazio di libertà

In mostra, il cabinet d’art graphique propone un confronto affascinante tra i disegni di Giacometti (anni ’50 e ’60) e quelli di Marwan (dal 1964 in poi). Mentre Giacometti schizza teste su riviste, buste e libri, Marwan disegna di notte, dopo il lavoro, su fogli che diventeranno la base dei suoi dipinti.

Entrambi i loro disegni sono luoghi di libertà, di pensiero visivo, di fragilità. Sono schizzi, appunti, ma anche confessioni. Come pagine di un diario visivo.

Umano, troppo umano

Giacometti e Marwan scelgono l’umano. Non lo idealizzano, non lo glorificano: lo mostrano nella sua inquietudine. Per Giacometti, l’uscita dal Surrealismo è segnata da opere che parlano di fragilità, angoscia, desiderio (La Femme qui marche, La Cage). Marwan, invece, rappresenta figure tormentate, quasi androgine, immerse in una luce lattiginosa. Le sue tele vibrano di un’espressività intima e sospesa.

C’è un sottotesto politico nelle loro opere. Marwan ritrae poeti e pensatori arabi perseguitati, come Badr Shakir al Sayyab o Munif al-Razzaz, ma li trasforma in simboli universali di resistenza e isolamento.

Il confronto finale: le Teste a tu per tu

Nel gran finale della mostra, tre Teste di Marwan (tra cui Kopf, 1986 e 1994) si confrontano con busti e teste di Giacometti degli anni ’50 e ’60. Una sala che pulsa di intensità: le superfici vibrano, i volti si confrontano, le ossessioni si riconoscono. La testa diventa allora simbolo universale di ricerca artistica, di identità, di lotta interiore. È il volto del mondo, del tempo, di noi stessi.

 

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Mentre la Germania artistica del tempo archivia la figura umana come retaggio obsoleto, Marwan fa la scelta più coraggiosa: restare umano. Non lo interessano né i manifesti gridati, né la volontà di scioccare. La sua pittura — profondamente corporea, spesso sensuale — è invece una forma di poesia visiva. Ogni tela è un tentativo di dare corpo a emozioni troppo grandi per stare in una sola vita: desiderio, nostalgia, spaesamento. Nelle sue figure contorte, erotiche, isolate, si sente la voce di un uomo che ha conosciuto l’altrove. E ne ha fatto pittura.

I ragazzi palestinesi: fragile eroismo

Nel 1970, Marwan firma uno dei suoi lavori più intensi: Three Palestinian Boys. In un tempo in cui la solidarietà con la Palestina si traduceva in immagini stereotipate (fedayin armati, madri in abiti ricamati), lui sceglie il dettaglio, il gesto, l’umanità. Tre ragazzi con le camicie sbottonate e le maniche arrotolate, come se ne vedono migliaia nei campi profughi. Ma guardali bene: Marwan li dipinge dal basso, come si fa con gli eroi. Non hanno armi, ma portano sulle spalle un peso sovrumano. Non c’è retorica, c’è rispetto. C’è quella tenerezza severa che solo un pittore veramente umano può offrire.

Il corpo, la solitudine, il desiderio

Se i ragazzi palestinesi sono quieti e composti, le prime figure adulte di Marwan sono l’opposto: corpi frammentati, arti contorti, gesti impossibili.
Dipinti come Der Gemahl (Lo Sposo, 1966) raccontano una sessualità ferita, una ricerca spasmodica di compimento, un’esistenza spezzata e febbrile.
I volti somigliano a lui, ma non sono mai solo autoritratti.
Sono allegorie dell’inquietudine universale. Figure sospese in un non-luogo, che lottano per essere intere.

1973: Parigi, la svolta

Poi arriva Parigi.
Nel 1973, una borsa di studio lo porta nella città dei suoi sogni — quella che aveva sempre dipinto da lontano.
Qui Marwan incontra Cézanne, Monet, Bonnard. E si innamora di nuovo del colore.
Il viola crepuscolare, l’arancione damasceno, il verde smeraldo dell’infanzia tornano sulla tela.
Il colore diventa memoria viva. Il colore è casa.

Le Teste: topografie dell’anima

Dagli anni ’70 in poi, la pittura di Marwan si concentra sul volto — o meglio, sulla testa come paesaggio interiore.
Le superfici si frantumano in pieghe, campiture, strati sovrapposti. Ogni testa è un mondo: rughe come crepacci, sguardi come voragini, silenzi come altipiani.
Le dipinge, le ridipinge, le lascia emergere lentamente, come se scavasse nel tempo stesso.
Che sia olio, acquerello o incisione, ciò che conta è che quelle teste respirano.
Sono fragili e potenti, malinconiche e piene di dignità.

L’ultima lezione: comprendere tutto in un volto

Le “Teste” di Marwan ricordano a molti quelle di Francis Bacon, ma con una differenza fondamentale: in Marwan non c’è condanna, c’è compassione.
I suoi volti, pur scavati dalla vita, non sono vittime. Sono testimoni.
Come scrive il poeta Adonis, suo amico:

«Quando percepiamo il volto, possiamo dire: abbiamo compreso tutto.»

Marwan non dipinge per spiegare, ma per sentire.
E in quel sentire — così profondo, così umano — ci ha regalato non solo immagini, ma frammenti di verità.

Catalogo e programmazione

La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue (francese/inglese), curato da Françoise Cohen, con testi di Rasha Salti e un’intervista esclusiva di Hans Ulrich Obrist a Marwan. 112 pagine, 75 illustrazioni, prezzo: 24 €. Pubblicato dalla Fondation Giacometti e Fage éditions.

Durante l’intera durata della mostra, è previsto un ricco programma culturale: visite guidate (in francese e inglese), atelier per famiglie e bambini, incontri tematici.

Arte come esilio, arte come avventura

Scriveva Giacometti in una lettera del 1956:

« In questo momento vivo come un esiliato come mai prima, e ogni giorno ho la sensazione di vivere una grande avventura. »

E Marwan, nel 2008, annotava sul suo diario:

« Giorno di Sisifo », il nome di un dipinto mai finito, mai concluso, mai risolto.

Due artisti, due mondi, un’unica sfida: trasformare l’ossessione per l’umano in arte. Un’esposizione che non si guarda: si affronta.

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