IL BESTIARIO FILOSOFICO DI JAVIER BALMASEDA 

About the Author: Cristina Biordi

Published On: 9 Dicembre 2019

Tempo stimato per la lettura: 6,5 minuti


Javier Balmaseda è un artista plastico cubano, che nell’isola caraibica ha seguito i suoi studi d’arte. Oggi vive nel Principato d’Andorra, che nel 2013 ha rappresentato alla 55esima Biennale di Venezia con l’opera Fixed in contemporaneity (Fisso nella contemporaneità).
Javier Balmaseda ha esposto a Parigi in occasione dell’ultima edizione di Art Élysées, presso la galleria Baudoin Lebon, l’installazione La ruta migratoira (La strada migratoira) *. 3.000 granchi neri in ceramica, accatastati l’uno sull’altro che occupavano una superficie di 10 metri di lunghezza per 4 metri di larghezza. Un’opera di critica sociale con uno sguardo agli attuali esodi migratori.

Com’è nata l’idea di questa installazione? Cosa ti ha inspirato?

Ho tratto ispirazione dai ricordi d’infanzia nella mia città natale di Cienfuegos, dove migliaia di granchi iniziano a migrare verso il mare ogni anno e attraversano le strade dall’interno. É una metafora di una delle principlai questioni del nostro tempo, la migrazione delle persone, dovuta a problemi sociali, economici o climatici. La strada che collega le città di Trinidad e Cienfuegos è coperta ogni primavera da una massa di migliaia di granchi dei Caraibi, che corrorono verso la spiaggia per riprodursi. Uno spettacolo unico offerto da “Madre Natura”che mi ha sempre affascinato, e che ho voluto ricreare, materializzare. Nella mia opera i granchi sono la strada, perchè le migrazioni trasformano letteralmente un luogo, un paesaggio. Mentre le processioni dei granchi derivano dalla loro stessa costituzione biologica, l’emigrazione umana rimane l’ultima risorsa, l’unica strada per sopravvivere. Tali esodi sono causati dalle guerre, dai giochi di potere di alcuni governi, dalle dittature da cui i migranti non possono far altro che fuggire. Ma in questa fuga sono lasciati soli, abbandonati al caso. Ho vissuto questa esperienza, l’ho sofferta. Con la mia opera non desidero parlare del mio caso personale ma di un problema universale e senza tempo così com’è. L’emigrazione è sempre esistita: oltre a concentrarmi sugli attuali problemi che riguardano i migranti, cerco anche di esplorare un fenomeno radicato nella parte più profonda della condizione umana.

Cosa rappresenta l’opera che hai presentato alla Biennale di Venezia, al padiglione d’Andorra, nel 2013?

Anche per Fixed in contemporaneity mi sono ispirato ai ricordi della mia infanzia. A Cuba, negli anni 90 c’era molta povertà e i contadini uccidevano gli animali per mangiarli. Illegalmente, di notte per non essere scoperti e arrestati dalla polizia, perché come tutti gli strumenti di lavoro anche gli animali appartenevano al governo. Per fare in fretta tagliavano solo le gambe del cavallo, ancora vivo. Un gesto chiamato “togliere le ruote”.
È una riflessione sulla condizione umana. L’installazione è composta da una decina di cavalli che ho ricostruito attraverso alcune tecniche della taxidermia, affinché siano il più possibile realistici, utilizzando delle pelli prese in un mattatoio. Sono senza gambe che ho sostituito con dei cric utilizzati per cambiare le ruote delle automobili, in riferimento appunto al nome della pratica cubana. Il gruppo di cavalli rappresenta gli esseri umani. Il cavallo è simbolo di purezza, movimento, libertà e forza. Con quest’installazione ho voluto dare un’idea di “riparazione”, perché in fondo la nostra società dev’essere riparata, ma come? Nel caso della mia opera è una riparazione che impedisce al cavallo di muoversi, lo rende fisso, inerte, in una condizione quasi fatalistica. L’atto di mutilazione, dato dal taglio delle gambe, rappresenta anche lo sradicamento dal proprio ambiente, una situazione che provoca impotenza, frustrazione e molte volte è irreparabile.

Nelle tue opere utilizzi spesso gli animali per rappresentare la condizione umana, come nell’installazione di venti anni fa Solidos Aparentes (Solidi apparenti).

Gli animali possono essere specchio della condizione umana. In quest’installazione di grandi dimensioni, ho voluto riprodurre degli oggetti della vita quotidiana. Ma quando si entrava nello spazio espositivo questi non erano immediatamente individuabili perché essendo in maglia metallica risultavano quasi trasparenti allo sguardo. Gli oggetti erano collegati tra loro da dei tunnel e abitati da dei topi: una sorta di sequenza di gabbie tra loro connesse e solo quando i ratti entravano nell’oggetto questo diventava “visibile”, identificabile, grazie alla presenza dei loro corpi.
Siamo noi che diamo valore alle cose, esse non l’avrebbero in quanto tali. L’opera è una metafora di come siamo schiavi degli oggetti, prigionieri in una società consumistica.

In La ruta migratoira torna il tema della strada, già proposto con l’installazione El placer de quedarse quieto (Il piacere di restare tranquilli). Come mai hai creato una strada amaca?

L’opera è una riflessione ironica sull’immobilità. Questo lavoro, realizzato in asfalto, legno e corde, mostra un tratto stradale sottoforma di un’amaca gigante: 14 metri per 5 metri. Come artista mi piace servirmi di uno stesso oggetto, decontestualizzarlo, alterarne la valenza semantica: la manipolazione dell’elemento plastico, le infinite possibilità d’utilizzo di una stessa immagine, è quello che mi affascina e motiva la mia ricerca.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Mi ispiro molto ai concetti dell’Arte Povera, tra i cui esponenti apprezzo Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Jannis Kounellis. Mi piacciono anche il francese Christian Boltanski e l’inglese Tony Cragg. La mia è ammirazione verso questi artisti: non emulo, ma stimo i loro lavori. Come ho detto, per me l’arte è una ricerca continua, e forse quest’insegnamento lo devo a Picasso.
Voglio essere riconosciuto per la maniera in cui lavoro l’elemento plastico, non perché le mie opere si assomigliano tra loro.

Alcuni di questi artisti fanno parte del tuo patrimonio, quasi genetico, come si capisce nell’installazione Avui tot no m’és ja indiferent (Oggi, tutto non è più indifferente per me), in cui hai scritto il nome di alcuni autori e artisti su delle ossa.

È un’opera di transizione tra due tappe della mia carriera, che segna il cambiamento nel mio modo di pensare l’arte. Tra i nomi citati ci sono pittori, scrittori, familiari, tutte le persone che hanno contribuito a fare di me ció che sono oggi, come uomo ma soprattutto come artista: costituiscono il mio scheletro spirituale. Sono i miei punti di riferimento, senza di loro non esisterei, non esisterebbe il mio lavoro.
Nell’installazione cito molti scrittori perché ho una cultura classica, filosofica. La letteratura per me è molto importante. Inoltre, amo moltissimo la poesia, arte difficile di cui ammiro la capacità di creare delle immagini ed emozionare con poche parole.

Cos’è per te la creatività?

L’artista deve svolgere un mestiere di ricerca plastica continua, deve sempre cambiare, mettersi in discussione, sperimentare, lavorare continuamente. La creatività deriva da quest’impegno. Non basta avere un’idea, come diceva José Saramago, ma bisogna trovare il modo di concretizzarla, di materializzarla attraverso il lavoro percorrendo le infinite possibilità a nostra disposizione.

Progetti futuri?

Ho tanti progetti, tantissme idee da voler realizzare. Finora mi sono autoprodotto, adesso cerco dei mecenati.

*L’impegno sociale e civile come artista di Javier Balmaseda è rimarcato dal fatto che il 20% del ricavato della vendita dei singoli granchi dell’installazione è devoluto all’associazione SOS Mediterranée.


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IL BESTIARIO FILOSOFICO DI JAVIER BALMASEDA 

Published On: 9 Dicembre 2019

About the Author: Cristina Biordi

Tempo stimato per la lettura: 19 minuti


Javier Balmaseda è un artista plastico cubano, che nell’isola caraibica ha seguito i suoi studi d’arte. Oggi vive nel Principato d’Andorra, che nel 2013 ha rappresentato alla 55esima Biennale di Venezia con l’opera Fixed in contemporaneity (Fisso nella contemporaneità).
Javier Balmaseda ha esposto a Parigi in occasione dell’ultima edizione di Art Élysées, presso la galleria Baudoin Lebon, l’installazione La ruta migratoira (La strada migratoira) *. 3.000 granchi neri in ceramica, accatastati l’uno sull’altro che occupavano una superficie di 10 metri di lunghezza per 4 metri di larghezza. Un’opera di critica sociale con uno sguardo agli attuali esodi migratori.

Com’è nata l’idea di questa installazione? Cosa ti ha inspirato?

Ho tratto ispirazione dai ricordi d’infanzia nella mia città natale di Cienfuegos, dove migliaia di granchi iniziano a migrare verso il mare ogni anno e attraversano le strade dall’interno. É una metafora di una delle principlai questioni del nostro tempo, la migrazione delle persone, dovuta a problemi sociali, economici o climatici. La strada che collega le città di Trinidad e Cienfuegos è coperta ogni primavera da una massa di migliaia di granchi dei Caraibi, che corrorono verso la spiaggia per riprodursi. Uno spettacolo unico offerto da “Madre Natura”che mi ha sempre affascinato, e che ho voluto ricreare, materializzare. Nella mia opera i granchi sono la strada, perchè le migrazioni trasformano letteralmente un luogo, un paesaggio. Mentre le processioni dei granchi derivano dalla loro stessa costituzione biologica, l’emigrazione umana rimane l’ultima risorsa, l’unica strada per sopravvivere. Tali esodi sono causati dalle guerre, dai giochi di potere di alcuni governi, dalle dittature da cui i migranti non possono far altro che fuggire. Ma in questa fuga sono lasciati soli, abbandonati al caso. Ho vissuto questa esperienza, l’ho sofferta. Con la mia opera non desidero parlare del mio caso personale ma di un problema universale e senza tempo così com’è. L’emigrazione è sempre esistita: oltre a concentrarmi sugli attuali problemi che riguardano i migranti, cerco anche di esplorare un fenomeno radicato nella parte più profonda della condizione umana.

Cosa rappresenta l’opera che hai presentato alla Biennale di Venezia, al padiglione d’Andorra, nel 2013?

Anche per Fixed in contemporaneity mi sono ispirato ai ricordi della mia infanzia. A Cuba, negli anni 90 c’era molta povertà e i contadini uccidevano gli animali per mangiarli. Illegalmente, di notte per non essere scoperti e arrestati dalla polizia, perché come tutti gli strumenti di lavoro anche gli animali appartenevano al governo. Per fare in fretta tagliavano solo le gambe del cavallo, ancora vivo. Un gesto chiamato “togliere le ruote”.
È una riflessione sulla condizione umana. L’installazione è composta da una decina di cavalli che ho ricostruito attraverso alcune tecniche della taxidermia, affinché siano il più possibile realistici, utilizzando delle pelli prese in un mattatoio. Sono senza gambe che ho sostituito con dei cric utilizzati per cambiare le ruote delle automobili, in riferimento appunto al nome della pratica cubana. Il gruppo di cavalli rappresenta gli esseri umani. Il cavallo è simbolo di purezza, movimento, libertà e forza. Con quest’installazione ho voluto dare un’idea di “riparazione”, perché in fondo la nostra società dev’essere riparata, ma come? Nel caso della mia opera è una riparazione che impedisce al cavallo di muoversi, lo rende fisso, inerte, in una condizione quasi fatalistica. L’atto di mutilazione, dato dal taglio delle gambe, rappresenta anche lo sradicamento dal proprio ambiente, una situazione che provoca impotenza, frustrazione e molte volte è irreparabile.

Nelle tue opere utilizzi spesso gli animali per rappresentare la condizione umana, come nell’installazione di venti anni fa Solidos Aparentes (Solidi apparenti).

Gli animali possono essere specchio della condizione umana. In quest’installazione di grandi dimensioni, ho voluto riprodurre degli oggetti della vita quotidiana. Ma quando si entrava nello spazio espositivo questi non erano immediatamente individuabili perché essendo in maglia metallica risultavano quasi trasparenti allo sguardo. Gli oggetti erano collegati tra loro da dei tunnel e abitati da dei topi: una sorta di sequenza di gabbie tra loro connesse e solo quando i ratti entravano nell’oggetto questo diventava “visibile”, identificabile, grazie alla presenza dei loro corpi.
Siamo noi che diamo valore alle cose, esse non l’avrebbero in quanto tali. L’opera è una metafora di come siamo schiavi degli oggetti, prigionieri in una società consumistica.

In La ruta migratoira torna il tema della strada, già proposto con l’installazione El placer de quedarse quieto (Il piacere di restare tranquilli). Come mai hai creato una strada amaca?

L’opera è una riflessione ironica sull’immobilità. Questo lavoro, realizzato in asfalto, legno e corde, mostra un tratto stradale sottoforma di un’amaca gigante: 14 metri per 5 metri. Come artista mi piace servirmi di uno stesso oggetto, decontestualizzarlo, alterarne la valenza semantica: la manipolazione dell’elemento plastico, le infinite possibilità d’utilizzo di una stessa immagine, è quello che mi affascina e motiva la mia ricerca.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Mi ispiro molto ai concetti dell’Arte Povera, tra i cui esponenti apprezzo Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Jannis Kounellis. Mi piacciono anche il francese Christian Boltanski e l’inglese Tony Cragg. La mia è ammirazione verso questi artisti: non emulo, ma stimo i loro lavori. Come ho detto, per me l’arte è una ricerca continua, e forse quest’insegnamento lo devo a Picasso.
Voglio essere riconosciuto per la maniera in cui lavoro l’elemento plastico, non perché le mie opere si assomigliano tra loro.

Alcuni di questi artisti fanno parte del tuo patrimonio, quasi genetico, come si capisce nell’installazione Avui tot no m’és ja indiferent (Oggi, tutto non è più indifferente per me), in cui hai scritto il nome di alcuni autori e artisti su delle ossa.

È un’opera di transizione tra due tappe della mia carriera, che segna il cambiamento nel mio modo di pensare l’arte. Tra i nomi citati ci sono pittori, scrittori, familiari, tutte le persone che hanno contribuito a fare di me ció che sono oggi, come uomo ma soprattutto come artista: costituiscono il mio scheletro spirituale. Sono i miei punti di riferimento, senza di loro non esisterei, non esisterebbe il mio lavoro.
Nell’installazione cito molti scrittori perché ho una cultura classica, filosofica. La letteratura per me è molto importante. Inoltre, amo moltissimo la poesia, arte difficile di cui ammiro la capacità di creare delle immagini ed emozionare con poche parole.

Cos’è per te la creatività?

L’artista deve svolgere un mestiere di ricerca plastica continua, deve sempre cambiare, mettersi in discussione, sperimentare, lavorare continuamente. La creatività deriva da quest’impegno. Non basta avere un’idea, come diceva José Saramago, ma bisogna trovare il modo di concretizzarla, di materializzarla attraverso il lavoro percorrendo le infinite possibilità a nostra disposizione.

Progetti futuri?

Ho tanti progetti, tantissme idee da voler realizzare. Finora mi sono autoprodotto, adesso cerco dei mecenati.

*L’impegno sociale e civile come artista di Javier Balmaseda è rimarcato dal fatto che il 20% del ricavato della vendita dei singoli granchi dell’installazione è devoluto all’associazione SOS Mediterranée.


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