Nic Pizzolatto, sceneggiatore e umanista

About the Author: Redazione ViviCreativo

Published On: 20 Gennaio 2015

Tempo stimato per la lettura: 2,6 minuti

 

Graffia, scava, scuote, picchia. Nic Pizzolatto non è solo uno scrittore. È un filosofo. Un umanista. I personaggi dei suoi romanzi sono maschere grottesche, tipiche della grande tradizione del noir americano, quello di James Ellroy e Cormac McCarthy, fantasmi incastrati in vite sbagliate, costretti a vagare in un “mondo dove rotolano i kudzu e alberi ossuti crescono nell’acqua nera”.
Il Texas, la Louisiana, i deserti, le paludi e, poi, naturalmente l’inferno, che odora di muffa e pessimo bourbon. Il Sud degli Stati Uniti è la cornice ideale dei racconti di Pizzolatto, è la messa in scena perfetta di una fine del mondo inevitabile e, quasi, desiderata. Di solitudine, sconfitta e morte, ma anche di amore, speranza e resurrezione. Di questo e altro parlano le pagine dei romanzi di Nic, giovane italo-americano di talento, tra tutti, “Galveston” (edito in Italia da Mondadori), storia di Roy, un criminale malato di cancro, e Rocky, giovane prostituta, in fuga verso la redenzione.
Le parole ti spezzano il fiato, come un pugno allo stomaco, ad ogni capoverso si è come travolti, storditi. È la scrittura, bellezza, la scrittura intensa, lucida, secca, puoi quasi sentirlo il sapore aspro della polvere, l’amaro del sangue sul palato e tra i denti.
Il fallimento umano diventa il cuore di un film lungo 8 ore, “True Detective”, serie antologica HBO di cui Pizzolatto è lo sceneggiatore e che vede dietro la macchina da presa uno dei figli più promettenti del Sundance e tra i cineasti più raffinati del momento, Cary Fukunaga.

Trascinati nelle atmosfere del Southern Gothic, tra riti voodoo, crimini seriali e chiese mobili, siamo costretti a scavare nel sudiciume umano, a guardare l’orrore diretti dallo sguardo a-morale dei due detective protagonisti, diventati già un cult, Rusty (il premio Oscar Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson). È come se Nietzsche fosse nato a Baton Rouge e indossasse una t-shirt con la scritta “l’uomo non è che un ghigno e una dolorosa vergogna”.
Ogni puntata sembra la pagina di un complesso trattato di filosofia, dove l’uomo è al centro di tutto, dove quel suo bulimico bisogno di affermare se stesso in relazione a Dio, una mera comparsa nell’immenso universo, diventa l’espediente narrativo che genera l’orrore. Schegge impazzite, naufraghi attaccati ad un relitto destinato ad affondare, nessuno vuole vivere davvero, “pensa all’arroganza che ci vuole per strappare un’anima dal piano della non esistenza e ficcarla in questa carne. E per portare a forza una vita in questo immondezzaio.”
I delitti, le prove, gli interrogatori, le fredde e opache ambientazioni noir sono solo suppellettili, l’indagine “vera” è quella antropologica, è il racconto del male, spaventoso ma inevitabile, di un’abiezione morale nella quale poi non è così difficile riconoscersi.
Guardare “True Detective” o leggere “Galveston” è come piantarsi, piedi e occhi, davanti ad un affresco di pura e sconcertante umanità. Ridere, un po’, e piangere, tanto.

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Nic Pizzolatto, sceneggiatore e umanista

Published On: 20 Gennaio 2015

About the Author: Redazione ViviCreativo

Tempo stimato per la lettura: 8 minuti

 

Graffia, scava, scuote, picchia. Nic Pizzolatto non è solo uno scrittore. È un filosofo. Un umanista. I personaggi dei suoi romanzi sono maschere grottesche, tipiche della grande tradizione del noir americano, quello di James Ellroy e Cormac McCarthy, fantasmi incastrati in vite sbagliate, costretti a vagare in un “mondo dove rotolano i kudzu e alberi ossuti crescono nell’acqua nera”.
Il Texas, la Louisiana, i deserti, le paludi e, poi, naturalmente l’inferno, che odora di muffa e pessimo bourbon. Il Sud degli Stati Uniti è la cornice ideale dei racconti di Pizzolatto, è la messa in scena perfetta di una fine del mondo inevitabile e, quasi, desiderata. Di solitudine, sconfitta e morte, ma anche di amore, speranza e resurrezione. Di questo e altro parlano le pagine dei romanzi di Nic, giovane italo-americano di talento, tra tutti, “Galveston” (edito in Italia da Mondadori), storia di Roy, un criminale malato di cancro, e Rocky, giovane prostituta, in fuga verso la redenzione.
Le parole ti spezzano il fiato, come un pugno allo stomaco, ad ogni capoverso si è come travolti, storditi. È la scrittura, bellezza, la scrittura intensa, lucida, secca, puoi quasi sentirlo il sapore aspro della polvere, l’amaro del sangue sul palato e tra i denti.
Il fallimento umano diventa il cuore di un film lungo 8 ore, “True Detective”, serie antologica HBO di cui Pizzolatto è lo sceneggiatore e che vede dietro la macchina da presa uno dei figli più promettenti del Sundance e tra i cineasti più raffinati del momento, Cary Fukunaga.

Trascinati nelle atmosfere del Southern Gothic, tra riti voodoo, crimini seriali e chiese mobili, siamo costretti a scavare nel sudiciume umano, a guardare l’orrore diretti dallo sguardo a-morale dei due detective protagonisti, diventati già un cult, Rusty (il premio Oscar Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson). È come se Nietzsche fosse nato a Baton Rouge e indossasse una t-shirt con la scritta “l’uomo non è che un ghigno e una dolorosa vergogna”.
Ogni puntata sembra la pagina di un complesso trattato di filosofia, dove l’uomo è al centro di tutto, dove quel suo bulimico bisogno di affermare se stesso in relazione a Dio, una mera comparsa nell’immenso universo, diventa l’espediente narrativo che genera l’orrore. Schegge impazzite, naufraghi attaccati ad un relitto destinato ad affondare, nessuno vuole vivere davvero, “pensa all’arroganza che ci vuole per strappare un’anima dal piano della non esistenza e ficcarla in questa carne. E per portare a forza una vita in questo immondezzaio.”
I delitti, le prove, gli interrogatori, le fredde e opache ambientazioni noir sono solo suppellettili, l’indagine “vera” è quella antropologica, è il racconto del male, spaventoso ma inevitabile, di un’abiezione morale nella quale poi non è così difficile riconoscersi.
Guardare “True Detective” o leggere “Galveston” è come piantarsi, piedi e occhi, davanti ad un affresco di pura e sconcertante umanità. Ridere, un po’, e piangere, tanto.

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