Intervista a Giuseppe Palmisano: ‘Sono consapevole che oggi sia possibile ‘ricreare’ più che creare”

About the Author: Alessia

Published On: 18 Gennaio 2019

Tempo stimato per la lettura: 10,9 minuti

Abbiamo avuto un a lunga chiacchierata con uno fra i (giovani) artisti italiani più talentuosi, Giuseppe Palmisano, che si divide tra Italia e estero, per sviluppare le sue idee e dare vita a delle opere assolutamente innovative. Non ama le definizioni, passa con disinvoltura dagli scatti con Ghali, a quelli verso un universo femminile enigmatico e ultramoderno (lavorando in location come la Reggia di Caserta). Abbiamo parlato a lungo della sua definizione e della sua visione di arte e artista – con una sua interessante interpretazione della definizione di cosa sia la creatività…Gettando uno sguardo al futuro, ha in programma nuove lavorazioni a Londra e in tanti altri luoghi (non necessariamente con la macchina fotografica); anche se l’Italia, anzi la Puglia nello specifico, rimane il suo punto fermo perché, come conclude, “sono nomade nell’animo. Sono nomade nell’animo; è proprio perché ho delle radici. È facile essere nomade, quando hai un posto dove tornare“.

Ho letto che la definizione “artista” la senti un po’ stretta. È così? Come ti definisci allora?
In questo momento è più accettato il fatto di essere un creativo rispetto ad essere un artista; l’artista è un termine che viene o abusato o viene utilizzato per i pittori dell’800! È un termine “vecchio”, che viene usato per generalizzare questa figura, confuso anche con il vocabolo creativo. Il fotografo viene chiamato artista, così come il musicista.
Alla fine sono o tutti artisti o tutti creativi. Ecco in questa dimensione preferirei essere chiamato artista piuttosto che fotografo, la parola fotografo mi definisce meno. È solo una questione di presentazione. Nella nostra nazione l’artista non è una professione molto riconosciuta, vorrei invece lo fosse come quella di un idraulico, un falegname, un meccanico o un impiegato.
Quando si tratta di presentarsi a delle persone, se dici di essere un artista si apre un mondo; sei costretto tu a specificare per far capire cosa fai.
Se con la parola artista si potesse chiudere il discorso, io direi artista. Il problema è che rimane sempre sospeso.
È solo in questa dimensione che è quella umana, semplice, che ho problemi con la parola artista, altrimenti sarebbe quella che più correttamente mi definisce.

Mi dicevi infatti che la stessa parola creatività, ti fa venire il prurito…perché?
Perché, forse ancora più dell’artista, raggruppa un numero gigante di persone. Per me è come se il creativo fosse una persona che alla mattina si alza e ha la smania di creare qualcosa di nuovo. Credo che in questo modo si perda in partenza, almeno lo penso su di me ora. Intanto perché, mi posso sbagliare, ma non credo che in questo momento si possa creare qualcosa di nuovo.
La creazione credo che abbia più a che fare con l’entertainment o con il mondo degli eventi. Rispetto ad una ricerca. La ricerca personale è fondata su dubbi, fallimenti e crisi. Il creativo non può permetterselo, perché deve consegnare un lavoro innovativo e creativo, inteso con un’accezione quasi “solare” . Cosa vuol dire? La risposta che mi è venuta di getto è che non mi piace la parola creativo, l’ho sostituita con “ricreativo”. Per due motivi: uno perché sono consapevole che sia più possibile oggi “ricreare” che creare, poi perché i creativi si prendono troppo sul serio e si dimenticano della ricreazione, momento di pausa e leggerezza. L’artista forse può essere creativo, nel senso che “crea” qualcosa. Ma non si preoccupa di questo. È il preoccuparsi di “creare” che nel creativo mi dà fastidio. Il creativo ha a che fare con un’azienda che gli chiede qualcosa, e sa che non può sbagliare.
Bergonzoni raccontava: “Ma i creativi vengono dal creame?” Per cui non vorrei essere un creativo. Passo molto tempo a distruggere! Passo molto più tempo a distruggere e a mettermi in discussione che a creare. Nel senso che il mio momento “creativo” è minore rispetto a quello “distruttivo”.
Credo che la percentuale di creazione sia in genere molto minore rispetto a quella della distruzione.
Tutto quello che faccio ha a che fare con l’intuizione, con l’illuminazione. Con la visione. E la creazione è solo parte dell’organizzazione, del “panificare”. Mi piace associare questo termine al fare la pasta, il pane, perché rende l’idea dello sforzo, del lavoro. L’artista si sveglia e pensa a cosa quel giorno metterà in discussione e, nel momento in cui distrugge tutto quello che ha pensato il giorno prima, ad un certo punto gli viene l’illuminazione. E da quel momento in poi penserà alla fase creativa, che è però la parte pratica. È la fase pratica ad essere creativa dell’artista, non quella dell’idea. La fase pratica non è a monte, ecco perché al creativo gli manca un passaggio. L’artista lo è sempre anche quando dorme. Anche se non riesco a capire perché alcuni vengono chiamati artisti quando creano degli oggetti, e i creativi quando producono altre cose. Ma qual è la differenza? Sembra che il creativo appartenga al mondo delle idee, mentre l’artista sia definito colui che fa… Sì, mi sembra una definizione un po’ scolastica. Un ragazzo che disegna è, per tutti, un creativo. L’arte, alla fine, deve avere un’aura intorno a sé, in qualche modo credo che l’arte sia una “fede”.
Se riuscissimo sarebbe perfetto far diventare l’artista anche un lavoro, e solo dopo uno stile di vita. Anche se più ti “allontani” dalle persone, se sei su un altro piano, almeno a me provoca una crisi. E allo stesso tempo provoca una serie di mitomanie, vite completamente immerse nell’ego, sia perché vieni considerato dagli altri sia perché ti ci senti.
Un artista utilizza la fotografia e le performance come mezzo, un creativo cosa utilizza? E dove lavora? In questa epoca, trovo che i ragazzi sentano il bisogno di essere creativi, non di creare – che è una cosa diversa. Di creare qualcosa che metta in discussione. Un modo, un dispositivo, una relazione. La necessità è sacra, cioè io ho bisogno di fare determinate cose. La mia vita non avrebbe senso se non facessi quello che faccio, almeno in questo momento. Ma avere lo status di creativo è un’altra cosa.
È forse un escamotage, una anticamera dell’artista. Non posso dire appena ho comprato una macchina fotografica di essere un fotografo, posso dire però che sono creativo.
A volte su una creazione ci stai per mesi e mesi, forse qualcuno immagina che sia una cosa molto veloce, molto spot.
L’arte prescinde dal tempo dell’orologio.

Sei conosciuto e usi la fotografia per esprimerti: da dove viene il tuo interesse per questo mezzo ?
Credo che lo strumento principale, per una persona che ha una sensibilità diversa, non migliore, ma diversa, sia l’ascolto. Ascoltare me stesso e gli altri. La novità è che ho cominciato ad ascoltare me stesso, secondo me ha a che fare con l’unicità della persona. Tutti siamo unici, bisogna ascoltarsi, ascoltare di cosa abbia bisogno in questo momento la tua vita; l’artista deve rispondere ad esigenze che sono le sue. Alla fine deve fare i conti con questo. Io ho provato a non rispondere a queste esigenze, ma non ci sono riuscito. In ogni piccola parte delle cose che faccio, ci deve essere un senso. Io ho seguito un flusso, l’ho ascoltato, sicuramente l’ho indirizzato.
Sono partito con il teatro, ad un certo punto ho iniziato a fotografare perché avevo lì una macchina fotografica. Nel senso meno poetico e più poetico allo stesso tempo.
Secondo me se i tuoi genitori ti regalano una macchina fotografica tu non diventi artista. Io l’ho comprata così e usata fuori dal senso di “ansia da prestazione” per quella macchina. Ci gioco. L’artista può usare qualunque mezzo. Malgrado la tecnica, un artista può raccontare in tutti i campi e con tutti i medium.
Quindi quando mi sono trovato a dover compiere un passo, mi sono ascoltato, mi sono ritrovato da un palco come attore, a regista accanto alla macchina fotografica. Se ti ascolti, le cose cambiano. Non posso pensare di dire una cosa dall’inizio alla fine per sempre, con lo stesso mezzo. Domani sarò una persona diversa. In questo, vorrei che l’arte cambiasse le persone che la attraversano e ne vengono in contatto.
Ho preso delle cose dal teatro, dalla mia infanzia e dalla mia vita. Quando ho iniziato a fotografare? Il 4 novembre 1989. Quando ho aperto gli occhi, quando sono nato.
Il caso vuole che questa sia la parte per cui sono più conosciuto. Però qual è la percentuale delle persone che si è chiesta qualcosa in più sulle mie foto?
In che modo l’arte può arrivare nel miglior modo possibile alle persone? Che iniziative si potrebbero avviare, considerando il largo uso del digitale?
Nel mio caso il digitale è sempre servito per portare fuori le persone, anche rispetto alle mostre…mostre ne ho fatte poche, fino ad un certo punto pensavo che non le avrei mai fatte. Poi quella cosa voleva dire: “Non farò mai una mostra, finché non avrò trovato un mio modo”. Non amavo quello convenzionale di mettere le foto ad un muro. Penso che l’arte debba essere coinvolgimento. Il digitale è servito per portare dal vivo delle persone, anche se la mia domanda era: “In che modo posso far uscire le persone da casa?” Anche perché il digitale svela già – tralasciando l’importanza di capire quanto può essere diverso vedere un’opera dal vivo che sullo schermo. Da questa domanda sono sempre partite le mie considerazioni sull’efficacia di una mostra. Ma proprio il digitale stesso mi aiutato. L’opera d’arte non ha bisogno della pubblicità, della strategia, del marketing.
La contiene già in sé, semplicemente si autopromuove. Va solo cercato il modo migliore per raccontarla e per diffonderla. L’ingaggio delle persone fa parte dell’opera stessa. Nelle ultime 2 opere che ho fatto è stato importante tutto il lavoro organizzativo per coinvolgere molte donne. La velocità del digitale, l’attenzione delle persone, come per le stories si Instagram, è di 16 secondi. L’arte ha bisogno di un momento di folgorazione visiva, ma ha anche bisogno di soffermarsi; il digitale non ti agevola in questo. Cosa ci sia dietro a queste foto e cosa ci sia dopo, come arrivo alle cose che faccio, in pochi se lo domandano. Il like è solo una parte del mio lavoro, diciamo che si perde la parte didattica ed etica che metto nei lavori che faccio.

Come hai vissuto l’esperienza alla Reggia di Caserta, in un contesto come questo, simbolo della cultura nazionale e internazionale, stando dietro alla macchina da presa?
Innanzitutto devo fare una precisazione: non sono mai o quasi mai dietro alla macchina da presa, preferisco essere il regista; non penso tecnicamente allo scatto, lo organizzo preventivamente con le persone che mi aiutano. Il progetto si chiama VUOTO#2, ed è stato realizzato appunto alla Reggia di Caserta.
Avere 150 persone che fanno un viaggio in Sud Italia non è stato facile, anche per me. A Pesaro è stato più facile. Arrivare dopo un anno e sei mesi di lavoro, a fare quello scatto implica essere in mezzo a loro. A chi mi ha dato fiducia. Ci sarebbe anche molto da raccontare sulla parola VUOTO…è una parentesi gigante nella mia vita.

Ultima domanda: ora vivi a Bologna, ma che rapporto hai con la tua terra e le tue origini, la Puglia?
Nasco da un luogo che ha delle radici molto forti, le tradizioni, il cibo, la simbologia. Ti mette nelle condizioni di avere un’esperienza plurisensoriale. Sono partito con queste origini fortissime, che fanno ancora parte delle mie visioni e delle mie idee.
Quindi è inevitabile che io abbia questo sentimento verso il mio luogo di nascita. Forse, proprio perché ce l’ho, ho potuto viaggiare, intraprendere la mia vita da nomade. Da quando ho diciotto anni non mi sono mai fermato. Ho vissuto in 4/5 città diverse, in circa 20 case diverse, ho fatto dei mesi anche all’estero e non mi pesa. Ad oggi non mi è mai veramente pesato.
Sono nomade nell’animo; è proprio perché ho delle radici. Questo succede quando hai un posto vero, anche se non ci torni. È facile essere nomade, quando hai un posto dove tornare.

Web: www.giuseppepalmisano.com
Facebook: Giuseppe Palmisano / iosonopipo
Instagram: g.p. (@iosonopipo)

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Published On: 18 Gennaio 2019

About the Author: Alessia

Tempo stimato per la lettura: 33 minuti

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Ho letto che la definizione “artista” la senti un po’ stretta. È così? Come ti definisci allora?
In questo momento è più accettato il fatto di essere un creativo rispetto ad essere un artista; l’artista è un termine che viene o abusato o viene utilizzato per i pittori dell’800! È un termine “vecchio”, che viene usato per generalizzare questa figura, confuso anche con il vocabolo creativo. Il fotografo viene chiamato artista, così come il musicista.
Alla fine sono o tutti artisti o tutti creativi. Ecco in questa dimensione preferirei essere chiamato artista piuttosto che fotografo, la parola fotografo mi definisce meno. È solo una questione di presentazione. Nella nostra nazione l’artista non è una professione molto riconosciuta, vorrei invece lo fosse come quella di un idraulico, un falegname, un meccanico o un impiegato.
Quando si tratta di presentarsi a delle persone, se dici di essere un artista si apre un mondo; sei costretto tu a specificare per far capire cosa fai.
Se con la parola artista si potesse chiudere il discorso, io direi artista. Il problema è che rimane sempre sospeso.
È solo in questa dimensione che è quella umana, semplice, che ho problemi con la parola artista, altrimenti sarebbe quella che più correttamente mi definisce.

Mi dicevi infatti che la stessa parola creatività, ti fa venire il prurito…perché?
Perché, forse ancora più dell’artista, raggruppa un numero gigante di persone. Per me è come se il creativo fosse una persona che alla mattina si alza e ha la smania di creare qualcosa di nuovo. Credo che in questo modo si perda in partenza, almeno lo penso su di me ora. Intanto perché, mi posso sbagliare, ma non credo che in questo momento si possa creare qualcosa di nuovo.
La creazione credo che abbia più a che fare con l’entertainment o con il mondo degli eventi. Rispetto ad una ricerca. La ricerca personale è fondata su dubbi, fallimenti e crisi. Il creativo non può permetterselo, perché deve consegnare un lavoro innovativo e creativo, inteso con un’accezione quasi “solare” . Cosa vuol dire? La risposta che mi è venuta di getto è che non mi piace la parola creativo, l’ho sostituita con “ricreativo”. Per due motivi: uno perché sono consapevole che sia più possibile oggi “ricreare” che creare, poi perché i creativi si prendono troppo sul serio e si dimenticano della ricreazione, momento di pausa e leggerezza. L’artista forse può essere creativo, nel senso che “crea” qualcosa. Ma non si preoccupa di questo. È il preoccuparsi di “creare” che nel creativo mi dà fastidio. Il creativo ha a che fare con un’azienda che gli chiede qualcosa, e sa che non può sbagliare.
Bergonzoni raccontava: “Ma i creativi vengono dal creame?” Per cui non vorrei essere un creativo. Passo molto tempo a distruggere! Passo molto più tempo a distruggere e a mettermi in discussione che a creare. Nel senso che il mio momento “creativo” è minore rispetto a quello “distruttivo”.
Credo che la percentuale di creazione sia in genere molto minore rispetto a quella della distruzione.
Tutto quello che faccio ha a che fare con l’intuizione, con l’illuminazione. Con la visione. E la creazione è solo parte dell’organizzazione, del “panificare”. Mi piace associare questo termine al fare la pasta, il pane, perché rende l’idea dello sforzo, del lavoro. L’artista si sveglia e pensa a cosa quel giorno metterà in discussione e, nel momento in cui distrugge tutto quello che ha pensato il giorno prima, ad un certo punto gli viene l’illuminazione. E da quel momento in poi penserà alla fase creativa, che è però la parte pratica. È la fase pratica ad essere creativa dell’artista, non quella dell’idea. La fase pratica non è a monte, ecco perché al creativo gli manca un passaggio. L’artista lo è sempre anche quando dorme. Anche se non riesco a capire perché alcuni vengono chiamati artisti quando creano degli oggetti, e i creativi quando producono altre cose. Ma qual è la differenza? Sembra che il creativo appartenga al mondo delle idee, mentre l’artista sia definito colui che fa… Sì, mi sembra una definizione un po’ scolastica. Un ragazzo che disegna è, per tutti, un creativo. L’arte, alla fine, deve avere un’aura intorno a sé, in qualche modo credo che l’arte sia una “fede”.
Se riuscissimo sarebbe perfetto far diventare l’artista anche un lavoro, e solo dopo uno stile di vita. Anche se più ti “allontani” dalle persone, se sei su un altro piano, almeno a me provoca una crisi. E allo stesso tempo provoca una serie di mitomanie, vite completamente immerse nell’ego, sia perché vieni considerato dagli altri sia perché ti ci senti.
Un artista utilizza la fotografia e le performance come mezzo, un creativo cosa utilizza? E dove lavora? In questa epoca, trovo che i ragazzi sentano il bisogno di essere creativi, non di creare – che è una cosa diversa. Di creare qualcosa che metta in discussione. Un modo, un dispositivo, una relazione. La necessità è sacra, cioè io ho bisogno di fare determinate cose. La mia vita non avrebbe senso se non facessi quello che faccio, almeno in questo momento. Ma avere lo status di creativo è un’altra cosa.
È forse un escamotage, una anticamera dell’artista. Non posso dire appena ho comprato una macchina fotografica di essere un fotografo, posso dire però che sono creativo.
A volte su una creazione ci stai per mesi e mesi, forse qualcuno immagina che sia una cosa molto veloce, molto spot.
L’arte prescinde dal tempo dell’orologio.

Sei conosciuto e usi la fotografia per esprimerti: da dove viene il tuo interesse per questo mezzo ?
Credo che lo strumento principale, per una persona che ha una sensibilità diversa, non migliore, ma diversa, sia l’ascolto. Ascoltare me stesso e gli altri. La novità è che ho cominciato ad ascoltare me stesso, secondo me ha a che fare con l’unicità della persona. Tutti siamo unici, bisogna ascoltarsi, ascoltare di cosa abbia bisogno in questo momento la tua vita; l’artista deve rispondere ad esigenze che sono le sue. Alla fine deve fare i conti con questo. Io ho provato a non rispondere a queste esigenze, ma non ci sono riuscito. In ogni piccola parte delle cose che faccio, ci deve essere un senso. Io ho seguito un flusso, l’ho ascoltato, sicuramente l’ho indirizzato.
Sono partito con il teatro, ad un certo punto ho iniziato a fotografare perché avevo lì una macchina fotografica. Nel senso meno poetico e più poetico allo stesso tempo.
Secondo me se i tuoi genitori ti regalano una macchina fotografica tu non diventi artista. Io l’ho comprata così e usata fuori dal senso di “ansia da prestazione” per quella macchina. Ci gioco. L’artista può usare qualunque mezzo. Malgrado la tecnica, un artista può raccontare in tutti i campi e con tutti i medium.
Quindi quando mi sono trovato a dover compiere un passo, mi sono ascoltato, mi sono ritrovato da un palco come attore, a regista accanto alla macchina fotografica. Se ti ascolti, le cose cambiano. Non posso pensare di dire una cosa dall’inizio alla fine per sempre, con lo stesso mezzo. Domani sarò una persona diversa. In questo, vorrei che l’arte cambiasse le persone che la attraversano e ne vengono in contatto.
Ho preso delle cose dal teatro, dalla mia infanzia e dalla mia vita. Quando ho iniziato a fotografare? Il 4 novembre 1989. Quando ho aperto gli occhi, quando sono nato.
Il caso vuole che questa sia la parte per cui sono più conosciuto. Però qual è la percentuale delle persone che si è chiesta qualcosa in più sulle mie foto?
In che modo l’arte può arrivare nel miglior modo possibile alle persone? Che iniziative si potrebbero avviare, considerando il largo uso del digitale?
Nel mio caso il digitale è sempre servito per portare fuori le persone, anche rispetto alle mostre…mostre ne ho fatte poche, fino ad un certo punto pensavo che non le avrei mai fatte. Poi quella cosa voleva dire: “Non farò mai una mostra, finché non avrò trovato un mio modo”. Non amavo quello convenzionale di mettere le foto ad un muro. Penso che l’arte debba essere coinvolgimento. Il digitale è servito per portare dal vivo delle persone, anche se la mia domanda era: “In che modo posso far uscire le persone da casa?” Anche perché il digitale svela già – tralasciando l’importanza di capire quanto può essere diverso vedere un’opera dal vivo che sullo schermo. Da questa domanda sono sempre partite le mie considerazioni sull’efficacia di una mostra. Ma proprio il digitale stesso mi aiutato. L’opera d’arte non ha bisogno della pubblicità, della strategia, del marketing.
La contiene già in sé, semplicemente si autopromuove. Va solo cercato il modo migliore per raccontarla e per diffonderla. L’ingaggio delle persone fa parte dell’opera stessa. Nelle ultime 2 opere che ho fatto è stato importante tutto il lavoro organizzativo per coinvolgere molte donne. La velocità del digitale, l’attenzione delle persone, come per le stories si Instagram, è di 16 secondi. L’arte ha bisogno di un momento di folgorazione visiva, ma ha anche bisogno di soffermarsi; il digitale non ti agevola in questo. Cosa ci sia dietro a queste foto e cosa ci sia dopo, come arrivo alle cose che faccio, in pochi se lo domandano. Il like è solo una parte del mio lavoro, diciamo che si perde la parte didattica ed etica che metto nei lavori che faccio.

Come hai vissuto l’esperienza alla Reggia di Caserta, in un contesto come questo, simbolo della cultura nazionale e internazionale, stando dietro alla macchina da presa?
Innanzitutto devo fare una precisazione: non sono mai o quasi mai dietro alla macchina da presa, preferisco essere il regista; non penso tecnicamente allo scatto, lo organizzo preventivamente con le persone che mi aiutano. Il progetto si chiama VUOTO#2, ed è stato realizzato appunto alla Reggia di Caserta.
Avere 150 persone che fanno un viaggio in Sud Italia non è stato facile, anche per me. A Pesaro è stato più facile. Arrivare dopo un anno e sei mesi di lavoro, a fare quello scatto implica essere in mezzo a loro. A chi mi ha dato fiducia. Ci sarebbe anche molto da raccontare sulla parola VUOTO…è una parentesi gigante nella mia vita.

Ultima domanda: ora vivi a Bologna, ma che rapporto hai con la tua terra e le tue origini, la Puglia?
Nasco da un luogo che ha delle radici molto forti, le tradizioni, il cibo, la simbologia. Ti mette nelle condizioni di avere un’esperienza plurisensoriale. Sono partito con queste origini fortissime, che fanno ancora parte delle mie visioni e delle mie idee.
Quindi è inevitabile che io abbia questo sentimento verso il mio luogo di nascita. Forse, proprio perché ce l’ho, ho potuto viaggiare, intraprendere la mia vita da nomade. Da quando ho diciotto anni non mi sono mai fermato. Ho vissuto in 4/5 città diverse, in circa 20 case diverse, ho fatto dei mesi anche all’estero e non mi pesa. Ad oggi non mi è mai veramente pesato.
Sono nomade nell’animo; è proprio perché ho delle radici. Questo succede quando hai un posto vero, anche se non ci torni. È facile essere nomade, quando hai un posto dove tornare.

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