Matteo Graia, tra cinema e fotografia

About the Author: Redazione ViviCreativo

Matteo Graia
Published On: 4 Aprile 2016

Tempo stimato per la lettura: 7,8 minuti

Ci siamo imbattuti nel lavoro di Matteo Graia per caso, come capita spesso, quando si lavora sul web. È l’effetto serendipità, la sorpresa, l’inaspettato, cercavamo altro e ci siamo trovati di fronte ad uno straordinario racconto, perlopiù in bianco e nero, del dietro le quinte dell’ultimo film di Claudio Caligari (scomparso lo scorso 26 maggio), “Non essere cattivo”, la periferia romana che inghiotte e poi sputa i suoi figli più deboli, il mare di Ostia di pasoliniana memoria, gli anni 90, la coca, la musica disco, la noia e il senso dell’ineluttabilità.

Matteo è un fotografo e un videomaker di grande talento ed è uno a cui le interviste non piacciono molto, anche se non si direbbe leggendo il fiume di parole che riserva al ricordo di un grande maestro come Caligari e al film che, più di ogni altro, ne ha influenzato il lavoro, “L’Odio” di Mathieu Kassovitz.

Alessandro Borghi, foto di Matteo Graia

Alessandro Borghi, foto di Matteo Graia

 

Domanda a bruciapelo: come nasce una foto? Istinto? Progettualità? Smarmelliamo tutto?

Per me le foto nascono da un bagaglio visivo che uno si porta dietro. Io non ho fotografi di riferimento, a parte i grandi nomi ne conosco veramente pochi. Tutti i miei riferimenti sono in base alle pellicole cinematografiche. Fin da bambino guardavo e riguardavo film fino a conoscere tutte le battute a memoria Il trucco per me è tutto la, una volta che hai fagocitato immagini e le hai assorbite, poi è tutto facile, se hai la padronanza del mezzo, prendi e scatti. Non ti fai domande, in bicicletta ci vai senza pensare “ora alzo il ginocchio destro, ora il sinistro”.

Quando hai capito che le immagini sarebbero diventate il tuo lavoro?

E chi lo dice? Io sono sempre pronto con il progetto “banco de frutta nun te temo”.

Il fotografo canadese Ted Grant sosteneva che “quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti. Ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime”. Pensi a questo quando scatti?

Io sono meno profondo e introspettivo. Dipende da cosa vuoi realizzare, il colore sotto certi punti di vista è più facile, perchè l’occhio non si focalizza su un singolo elemento, in un certo senso la variante cromatica ti distrae dal contenuto quindi gli errori si notano meno.  Il famoso “effetto India”: chiunque va in India, torna che pare Steve McCurry. Con il B/N non hai distrazioni, si vede se la foto è buona o no. Comunque non è mai una scelta fatta post, quando scatto già so che tipo di foto voglio fare.

Come riesci a catturare momenti di calma sul set, luogo per antonomasia rumoroso e affollato?

Dalle esperienze che ho avuto è l’opposto, quando si gira si sta in silenzio e poi di norma ci sono molti tempi morti.

Che rapporto hai con attori e troupe? Nessuno ti hai mai detto “allontana quell’obiettivo dalla mia faccia?”

No mai,  ma non ci vuole una scienza per evitare di prendersi cazziatoni, basta stare al proprio posto.

Claudio Caligari e Valerio Mastandrea, foto di Matteo Graia

Claudio Caligari e Valerio Mastandrea, foto di Matteo Graia

Tra i tuoi lavori, c’è il dietro le quinte di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari?  Com’è stato lavorare con lui ed essere dentro un film così forte?

Claudio sapeva cosa voleva e come, e Maurizio Calvesi ( il direttore della fotografia) prontamente lo traduceva in immagini. C’era una straordinaria sinergia in tutta la troupe, infatti tutt’oggi siamo tutti molto legati. “L’odore della notte” me lo sono letteralmente divorato da ragazzo, conosco tutti i movimenti di macchina, le battute. È in quel film che mi sono innamorato di Valerio Mastandrea, anche se “ In barca a vela in contro mano” aveva un suo perché, quindi per me è stato fantastico esser chiamato da Valerio per fare un documentario sulla realizzazione del film. Ricordo il mio primo giorno. Stavo filmando dei provini, poi un ragazzo di produzione avverte che sta arrivando il regista, ero molto emozionato, perché “L’odore della notte” lo considero uno dei migliori film italiani degli anni 90. Claudio entra, io tutto timido rimango muto all’angolo della stanza con la videocamera in mano, Claudio mi guarda per un attimo, poi si gira, mi punta il dito e dice con  la sua voce rauca: “ Che cazzo si filma quello? ”. È stato il battesimo del fuoco. Quando il tuo regista italiano preferito ti rivolge la sua prima parola, che non è: “ Piacere Claudio “ ma “ che cazzo si filma quello? ” è fatta, poi non ti tocca più nulla.

Molte delle foto scattate ai protagonisti del film, ma anche altri tuoi scatti sembrano richiamare le atmosfere di “La Haine” di Mathieu Kassovitz, esprimendo in immagini la celebre battuta di Vinz “porca puttana, mi sento come una formica persa nello spazio intergalattico”. Un caso o un chiaro omaggio?

Sono cresciuto con “L’odio”, mi ha deviato, è stato il mio film forma mentis. Quando ho letto la sceneggiatura di Nec (non essere cattivo), ho subito fatto il collegamento a quel film. Forse lo vedo solo io ma “L’Haine” è uno dei film che più gli assomiglia. Partendo dai due finali, che sono delle coltellate al cuore, anche se molti vedono una speranza nel finale di Nec. Io, invece, ci vedo un grosso interrogativo che è anche una sentenza: è meglio morire da ragazzo in una rapina come Cesare o fare una vita senza prospettiva facendo il manovale come Vittorio? Nei luoghi descritti da Caligari e da Kassovitz, non c’è riscatto sociale perché in entrambi gli ambienti non c’è una via d’uscita. In “Non essere cattivo” Vittorio scopre che Tommasino vuole iniziare una carriera criminale mentre ne “L’odio” Hubert, Said e Vinz alla fine del loro percorso narrativo hanno un’evoluzione che li porterà a ripudiare la violenza nei confronti del naziskin; si sono elevati rispetto alla condizione sociale nella quale vivono, ma  vengono subito trascinati in basso dall’assassinio di Vinz. Il messaggio mi sembra chiaro per entrambi i film: per certi ambienti non c’è salvezza. “Le Haine” è stato un film profetico ed è attualissimo. Fino ad ora è andato tutto bene, ma perché si stava cadendo, ora si è atterrati.

Luca Marinelli fotografato da Matteo Graia

Luca Marinelli fotografato da Matteo Graia

 

La bottiglia molotov che cade a inizio film è esplosa nel momento in cui dei ragazzi delle banlieue ammazzano i proprio coetanei a raffiche di mitra per colpa di una società che li ha emarginati e fatti facile preda di gente senza scrupoli che li ammaliano con discorsi religiosi. Se non hai un futuro ti sale l’odio verso chi c’è l’ha, e in questo odio ci sguazza chi lo sa incanalare per scopi ben precisi. Vittorio e Cesare sono uguali, ragazzi figli di una periferia lasciata completamente allo sbando, dove è facile perdersi e impossibile ritrovarsi. Sono bestie da macello destinate chi a morire per un colpo di pistola, chi a ritrovarsi schiacciato dai debiti, dove delinquere diventa quasi una necessità per arrivare alla fine del mese. Io ho dato alla scelta di girare “La Haine” in bianco e nero un significato preciso, “La Haine” ti porta dritto a un punto, la scelta di far vedere la condizione di una società che ha smarrito la strada e non è più in grado di riprenderla, non c’è spazio per il colore, non serve, è superfluo, può distrarti. Vuole che tu stia fisso e concentrato su quello che accade. Sui volti dei poliziotti mentre Said scrive “Police ta mere”.  Sul rallenty di Hubert che da cazzotti al sacco nella palestra che era un luogo di riscatto sociale che viene prontamente distrutta dalla gente del luogo o il primo piano di Vinz quando il suo amico spara al buttafuori. Ecco quando mi è stato chiesto di realizzare le foto ho preso una decisione, quello di fare un intero progetto – tranne alcune eccezioni – in bianco e nero con una sola ottica, il 35 mm. Proprio per fermarsi sui visi e sulle atmosfere del film senza avere distrazioni. Consapevole del talento mostruoso che avevano gli attori del film.

Vincent Cassel in "L'Odio"

Vincent Cassel in “L’odio”

 

Se potessi scattare una sola fotografia del momento presente da consegnare ai posteri o da spedire nello spazio agli alieni, che soggetto sceglieresti?

La foto che farò domani, almeno sono sicuro che campo un altro giorno

È vero che quando si fotografa si fotografa sempre se stessi?

No, è ‘na cazzata.

Guardate gli altri lavori di Matteo qui, matteograia.com

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Published On: 4 Aprile 2016

About the Author: Redazione ViviCreativo

Tempo stimato per la lettura: 23 minuti

Ci siamo imbattuti nel lavoro di Matteo Graia per caso, come capita spesso, quando si lavora sul web. È l’effetto serendipità, la sorpresa, l’inaspettato, cercavamo altro e ci siamo trovati di fronte ad uno straordinario racconto, perlopiù in bianco e nero, del dietro le quinte dell’ultimo film di Claudio Caligari (scomparso lo scorso 26 maggio), “Non essere cattivo”, la periferia romana che inghiotte e poi sputa i suoi figli più deboli, il mare di Ostia di pasoliniana memoria, gli anni 90, la coca, la musica disco, la noia e il senso dell’ineluttabilità.

Matteo è un fotografo e un videomaker di grande talento ed è uno a cui le interviste non piacciono molto, anche se non si direbbe leggendo il fiume di parole che riserva al ricordo di un grande maestro come Caligari e al film che, più di ogni altro, ne ha influenzato il lavoro, “L’Odio” di Mathieu Kassovitz.

Alessandro Borghi, foto di Matteo Graia

Alessandro Borghi, foto di Matteo Graia

 

Domanda a bruciapelo: come nasce una foto? Istinto? Progettualità? Smarmelliamo tutto?

Per me le foto nascono da un bagaglio visivo che uno si porta dietro. Io non ho fotografi di riferimento, a parte i grandi nomi ne conosco veramente pochi. Tutti i miei riferimenti sono in base alle pellicole cinematografiche. Fin da bambino guardavo e riguardavo film fino a conoscere tutte le battute a memoria Il trucco per me è tutto la, una volta che hai fagocitato immagini e le hai assorbite, poi è tutto facile, se hai la padronanza del mezzo, prendi e scatti. Non ti fai domande, in bicicletta ci vai senza pensare “ora alzo il ginocchio destro, ora il sinistro”.

Quando hai capito che le immagini sarebbero diventate il tuo lavoro?

E chi lo dice? Io sono sempre pronto con il progetto “banco de frutta nun te temo”.

Il fotografo canadese Ted Grant sosteneva che “quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti. Ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime”. Pensi a questo quando scatti?

Io sono meno profondo e introspettivo. Dipende da cosa vuoi realizzare, il colore sotto certi punti di vista è più facile, perchè l’occhio non si focalizza su un singolo elemento, in un certo senso la variante cromatica ti distrae dal contenuto quindi gli errori si notano meno.  Il famoso “effetto India”: chiunque va in India, torna che pare Steve McCurry. Con il B/N non hai distrazioni, si vede se la foto è buona o no. Comunque non è mai una scelta fatta post, quando scatto già so che tipo di foto voglio fare.

Come riesci a catturare momenti di calma sul set, luogo per antonomasia rumoroso e affollato?

Dalle esperienze che ho avuto è l’opposto, quando si gira si sta in silenzio e poi di norma ci sono molti tempi morti.

Che rapporto hai con attori e troupe? Nessuno ti hai mai detto “allontana quell’obiettivo dalla mia faccia?”

No mai,  ma non ci vuole una scienza per evitare di prendersi cazziatoni, basta stare al proprio posto.

Claudio Caligari e Valerio Mastandrea, foto di Matteo Graia

Claudio Caligari e Valerio Mastandrea, foto di Matteo Graia

Tra i tuoi lavori, c’è il dietro le quinte di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari?  Com’è stato lavorare con lui ed essere dentro un film così forte?

Claudio sapeva cosa voleva e come, e Maurizio Calvesi ( il direttore della fotografia) prontamente lo traduceva in immagini. C’era una straordinaria sinergia in tutta la troupe, infatti tutt’oggi siamo tutti molto legati. “L’odore della notte” me lo sono letteralmente divorato da ragazzo, conosco tutti i movimenti di macchina, le battute. È in quel film che mi sono innamorato di Valerio Mastandrea, anche se “ In barca a vela in contro mano” aveva un suo perché, quindi per me è stato fantastico esser chiamato da Valerio per fare un documentario sulla realizzazione del film. Ricordo il mio primo giorno. Stavo filmando dei provini, poi un ragazzo di produzione avverte che sta arrivando il regista, ero molto emozionato, perché “L’odore della notte” lo considero uno dei migliori film italiani degli anni 90. Claudio entra, io tutto timido rimango muto all’angolo della stanza con la videocamera in mano, Claudio mi guarda per un attimo, poi si gira, mi punta il dito e dice con  la sua voce rauca: “ Che cazzo si filma quello? ”. È stato il battesimo del fuoco. Quando il tuo regista italiano preferito ti rivolge la sua prima parola, che non è: “ Piacere Claudio “ ma “ che cazzo si filma quello? ” è fatta, poi non ti tocca più nulla.

Molte delle foto scattate ai protagonisti del film, ma anche altri tuoi scatti sembrano richiamare le atmosfere di “La Haine” di Mathieu Kassovitz, esprimendo in immagini la celebre battuta di Vinz “porca puttana, mi sento come una formica persa nello spazio intergalattico”. Un caso o un chiaro omaggio?

Sono cresciuto con “L’odio”, mi ha deviato, è stato il mio film forma mentis. Quando ho letto la sceneggiatura di Nec (non essere cattivo), ho subito fatto il collegamento a quel film. Forse lo vedo solo io ma “L’Haine” è uno dei film che più gli assomiglia. Partendo dai due finali, che sono delle coltellate al cuore, anche se molti vedono una speranza nel finale di Nec. Io, invece, ci vedo un grosso interrogativo che è anche una sentenza: è meglio morire da ragazzo in una rapina come Cesare o fare una vita senza prospettiva facendo il manovale come Vittorio? Nei luoghi descritti da Caligari e da Kassovitz, non c’è riscatto sociale perché in entrambi gli ambienti non c’è una via d’uscita. In “Non essere cattivo” Vittorio scopre che Tommasino vuole iniziare una carriera criminale mentre ne “L’odio” Hubert, Said e Vinz alla fine del loro percorso narrativo hanno un’evoluzione che li porterà a ripudiare la violenza nei confronti del naziskin; si sono elevati rispetto alla condizione sociale nella quale vivono, ma  vengono subito trascinati in basso dall’assassinio di Vinz. Il messaggio mi sembra chiaro per entrambi i film: per certi ambienti non c’è salvezza. “Le Haine” è stato un film profetico ed è attualissimo. Fino ad ora è andato tutto bene, ma perché si stava cadendo, ora si è atterrati.

Luca Marinelli fotografato da Matteo Graia

Luca Marinelli fotografato da Matteo Graia

 

La bottiglia molotov che cade a inizio film è esplosa nel momento in cui dei ragazzi delle banlieue ammazzano i proprio coetanei a raffiche di mitra per colpa di una società che li ha emarginati e fatti facile preda di gente senza scrupoli che li ammaliano con discorsi religiosi. Se non hai un futuro ti sale l’odio verso chi c’è l’ha, e in questo odio ci sguazza chi lo sa incanalare per scopi ben precisi. Vittorio e Cesare sono uguali, ragazzi figli di una periferia lasciata completamente allo sbando, dove è facile perdersi e impossibile ritrovarsi. Sono bestie da macello destinate chi a morire per un colpo di pistola, chi a ritrovarsi schiacciato dai debiti, dove delinquere diventa quasi una necessità per arrivare alla fine del mese. Io ho dato alla scelta di girare “La Haine” in bianco e nero un significato preciso, “La Haine” ti porta dritto a un punto, la scelta di far vedere la condizione di una società che ha smarrito la strada e non è più in grado di riprenderla, non c’è spazio per il colore, non serve, è superfluo, può distrarti. Vuole che tu stia fisso e concentrato su quello che accade. Sui volti dei poliziotti mentre Said scrive “Police ta mere”.  Sul rallenty di Hubert che da cazzotti al sacco nella palestra che era un luogo di riscatto sociale che viene prontamente distrutta dalla gente del luogo o il primo piano di Vinz quando il suo amico spara al buttafuori. Ecco quando mi è stato chiesto di realizzare le foto ho preso una decisione, quello di fare un intero progetto – tranne alcune eccezioni – in bianco e nero con una sola ottica, il 35 mm. Proprio per fermarsi sui visi e sulle atmosfere del film senza avere distrazioni. Consapevole del talento mostruoso che avevano gli attori del film.

Vincent Cassel in "L'Odio"

Vincent Cassel in “L’odio”

 

Se potessi scattare una sola fotografia del momento presente da consegnare ai posteri o da spedire nello spazio agli alieni, che soggetto sceglieresti?

La foto che farò domani, almeno sono sicuro che campo un altro giorno

È vero che quando si fotografa si fotografa sempre se stessi?

No, è ‘na cazzata.

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